"Era  quello  che  guidava,  mascherato  da  cocchiere..." rispose

      Peppino.

      "E poi?" chiese il conte.

      "Ebbene,  in seguito il francese  si  levò  la  maschera;  Teresa,

      sempre  col  permesso  del  capo,  fece  altrettanto;  il francese

      domandò un convegno,  Teresa l'accordò;  soltanto fu Beppe che  si

      trovò sugli scalini della chiesa di San Giacomo."

      "Come!"  interruppe  nuovamente  Franz,  "quella  persona  che gli

      strappò il moccoletto?..."

      "Era un giovane di quindici anni" rispose Peppino,  "ma il  vostro

      amico non deve vergognarsi d'essere stato ingannato da lui,  ne ha

      ingannati molti altri."

      "E Beppe lo ha condotto fuori le mura?" domandò il conte.

      "Precisamente.  Una carrozza li aspettava alla fine  della  strada

      del Macello;  Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo: non

      se lo fece dire due volte.  Offerse con tutta galanteria la destra

      a  Beppe,  e gli si sedette vicino;  questi annunziò allora che lo

      avrebbe condotto in una villa a tre miglia da Roma; il francese lo

      assicurò di  essere  pronto  a  seguirlo  in  capo  al  mondo.  Il

      cocchiere  si  avviò subito per la strada di Ripetta,  giunse alla

      porta San Paolo,  e a duecento passi nella  campagna,  siccome  il

      francese  diventava  un  po'  troppo intraprendente,  in fede mia,

      Beppe gli puntò un paio di pistole alla gola,  il cocchiere  fermò

      subito i cavalli, e volgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello

      stesso tempo quattro dei nostri, che erano nascosti dietro le rive

      dell'Almo,  si  sono  lanciati  agli sportelli.  Il francese aveva

      buona volontà di difendersi,  e per poco non ha strangolato Beppe,

      a quanto ho inteso dire;  ma non c'era nulla da fare contro cinque

      uomini armati, ed è stato costretto ad arrendersi. Allora fu fatto

      scendere di carrozza,  e seguendo l'argine della piccola  riviera,

      fu  condotto  da Teresa e Luigi che lo aspettavano nelle catacombe

      di San Sebastiano."

      "Bene!" disse il conte volgendosi a Franz.  "Mi  pare  che  questa

      storia  ne  valga  bene  un'altra...  Che  ne  dite  voi che ve ne

      intendete?"

      "Dico che la troverei ridicola, se fosse avvenuta a tutt'altri che

      al mio amico."

      "Il fatto è" disse il conte,  "che se non mi aveste  ritrovato  in

      casa,  questa  era un'avventura che sarebbe costata un po' cara al

      vostro amico; ma tranquillizzatevi, ne sarà riscattato solo con un

      poco di paura."

      "E noi andiamo a trovarlo?" domandò Franz.

      "Per Bacco,  tanto più perché  si  trova  in  una  località  molto

      pittoresca. Conoscete le catacombe di San Sebastiano?"

      "No,  non vi sono mai disceso: avevo però stabilito che un qualche

      giorno vi sarei andato."

      "Ebbene, ecco trovata l'occasione, e sarà difficile ritrovarne una

      migliore. Avete pronta la vostra carrozza?"

      "No."

      "Non importa: io ho l'uso di farne stare una sempre pronta notte e

      giorno."

      "In ordine?..."

      "Sì,  sono molto  capriccioso:  vi  confesso  che  qualche  volta,

      alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende

      la volontà di portarmi in un punto qualunque del mondo, e parto."

      Il conte dette un tocco al campanello, il cameriere comparve.

      "Fate  uscire  la  carrozza  dalla  rimessa"  disse,  "e levate le

      pistole che stanno nelle tasche: è inutile svegliare il cocchiere,

      Alì guiderà."

      Dopo un momento s'intese il rumore della carrozza,  che  si  fermò

      davanti alla porta.

      Il conte guardò l'orologio.

      "Mezz'ora  dopo  mezzanotte"  disse.  "Avremmo  potuto partire tra

      cinque ore,  e giungere ancora in tempo;  ma questo ritardo  forse

      avrebbe  fatto  passare  una  cattiva notte al vostro compagno.  E

      dunque meglio andare di corsa a toglierlo dalle mani dei  barbari.

      Siete sempre risoluto ad accompagnarmi?"

      "Più che mai."

      "Ebbene, andiamo dunque."

      Franz ed il conte uscirono seguiti da Peppino.

      Alla porta trovarono la carrozza.

      Alì  era  a cassetta: Franz riconobbe lo schiavo muto della grotta

      di Montecristo.

      Salirono in carrozza aperta;  Peppino si  pose  vicino  ad  Alì  e

      partirono  al galoppo.  Alì aveva già ricevuto gli ordini,  poiché

      prese la strada del Corso,  e  traversò  Campo  Vaccino,  percorse

      quella di San Gregorio,  e giunse alla porta di San Sebastiano: il

      portinaio  volle  fare  qualche  difficoltà,   ma  il   conte   di

      Montecristo presentò un permesso del governatore di Roma di potere

      entrare  ed uscire dalla città in qualunque ora del giorno e della

      notte; fu dunque aperta la porta,  il portinaio ricevette un luigi

      per il suo incomodo e passarono.

      La strada che percorreva la carrozza era l'antica via Appia, tutta

      costeggiata  da antichi sepolcri.  A quando a quando,  al chiarore

      della luna che sorgeva,  sembrava a Franz di vedere una specie  di

      sentinella  staccarsi  da  un rudere;  ma ad un segnale di Peppino

      spariva immediatamente fra le ombre.

      Poco prima del circo di Caracalla la carrozza  si  fermò,  Peppino

      venne ad aprire lo sportello, e Franz ed il conte discesero.

      "Fra dieci minuti" disse il conte al compagno, "saremo arrivati."

      Indi  prese Peppino a parte,  gli dette un ordine a bassa voce,  e

      questi partì  dopo  essersi  munito  di  una  torcia  presa  nella

      cassetta della carrozza.

      Scorsero  ancora  cinque  minuti,  nei quali Franz vide il pastore

      inoltrarsi fra le dune del terreno ineguale della campagna romana,

      e perdersi fra l'alta erba rossastra che sembra l'irta criniera di

      qualche gigantesco leone.

      "Ora" disse il conte, "seguiamolo."

      Entrambi s'inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi

      li condusse per un piano inclinato in una piccola vallata.

      Ben presto videro due uomini parlarsi fra le ombre.

      "Dobbiamo continuare ad inoltrarci?" domandò Franz  al  conte,  "o

      aspettare?"

      "Avanti...  Peppino  deve  avere avvisata la sentinella del nostro

      arrivo."

      Infatti uno di quei due uomini era  Peppino,  l'altro  un  bandito

      posto a vedetta.

      Franz e il conte si avvicinarono, il bandito li salutò.

      "Eccellenza"  disse  Peppino,   volgendosi  al  conte,  "se  vuole

      seguirmi, l'ingresso alle catacombe è qui a due passi."

      "Sta bene" disse il conte, "cammina avanti."

      Infatti dietro ad un folto cespuglio, ed in mezzo a diverse rocce,

      si presentava un'apertura per  la  quale  un  uomo  poteva  appena

      passare.  Peppino  fu il primo a scivolare entro questa fenditura;

      ma appena ebbe fatto qualche passo il passaggio si allargò.

      Allora si fermò,  accese la torcia,  e si volse a  vedere  se  era

      seguito.

      Il  conte  si  era  introdotto  per  primo  per  questa  specie di

      spiraglio,  e Franz dopo di lui.  Il terreno si abbassava con  una

      inclinazione dolce, e si allargava man mano che s'inoltravano; ciò

      nonostante  Franz ed il conte erano obbligati a camminare ricurvi,

      ed avrebbero fatto fatica a passare tutti e due di fianco.

      In tal modo fecero circa cinquanta passi,  quindi si fermarono  al

      grido "chi vive?" e nello stesso tempo videro brillare la canna di

      un fucile al chiarore della torcia.

      "Amici!" rispose Peppino.

      E  si  avanzò  solo,  disse  alcune  parole  a bassa voce a questa

      seconda sentinella,  che come la prima li salutò facendo segno  ai

      notturni visitatori che potevano passare.

      Dietro la sentinella c'era una scala di circa venti gradini.

      Franz  ed  il conte li discesero e si ritrovarono in una specie di

      crocevia mortuario.

      Da questo punto divergevano cinque vie come i raggi di una stella,

      e le pareti delle mura,  scavate a nicchie sovrapposte a forma  di

      sepolcri,   indicavano   che   finalmente  erano  penetrati  nelle

      catacombe.  In una  di  queste  cavità,  di  cui  era  impossibile

      calcolare l'estensione, si vedevano alcuni riflessi di luce.

      Il conte mise la mano sulla spalla di Franz, e disse:

      "Volete vedere un accampamento di banditi immersi nel sonno?"

      "Sì" rispose Franz.

      "Ebbene, venite con me... Peppino, smorza la torcia."

      Peppino  obbedì,  e  Franz  ed  il  conte  si  trovarono nella più

      profonda oscurità;  soltanto a circa  cinquanta  passi  davanti  a

      loro,  si  vedevano  lungo  i muri alcuni raggi rossastri di luce,

      divenuti ancora più visibili  dopo  che  Peppino  ebbe  spenta  la

      torcia.

      Avanzarono silenziosamente;  il conte guidava Franz come se avesse

      avuta la singolare facoltà di vederci fra le  tenebre.  Lo  stesso

      Franz   acquistava   maggior   pratica  del  luogo  man  mano  che

      s'inoltrava verso quel chiaro di luce che serviva di guida.

      Tre arcate,  delle quali una di mezzo serviva  di  porta,  dettero

      loro  passaggio.  Da  una  parte mettevano nel corridoio dov'erano

      Franz ed il conte,  e  dall'altra  in  una  sala  quadrata,  tutta

      circondata da nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo

      s'ergevano  quattro  pietre  che  un tempo erano adibite ad altare

      come indicava la croce sovrapposta.

      Una sola lampada, posta sopra un fusto di colonna,  illuminava con

      una  luce  pallida  e vacillante la strana scena che si presentava

      agli occhi dei due notturni visitatori nascosti nell'ombra.

      Un uomo era seduto,  col gomito appoggiato  a  questa  colonna,  e

      leggeva, voltando le spalle alle arcate.

      Era il capo della banda, Luigi Vampa.

      Intorno  a  lui,  stavano  stesi  e  avvolti nei loro mantelli,  o

      addossati ad una specie di banco di pietra che girava tutt'intorno

      alle pareti di questo colombario,  una ventina circa di  briganti;

      ciascuno teneva la carabina a portata di mano.

      Nel  fondo,   silenziosa,   e  appena  visibile  si  scorgeva  una

      sentinella che come un'ombra passeggiava su e giù,  davanti ad una

      specie di apertura, che non da altro si distingueva, se non perché

      erano più fitte le tenebre in quella direzione.

      Appena  il conte s'accorse che Franz aveva abituati abbastanza gli

      occhi a questo quadro pittoresco portò l'indice  alle  labbra  per

      raccomandare  il  silenzio,  e  salendo  i  tre  scalini  che  dal

      corridoio mettevano nel colombario,  entrò nella sala  dell'arcata

      di  mezzo,  e  si  avanzò  verso Vampa tanto profondamente immerso

      nella lettura, che non ne intese i passi.

      "Chi è là?" gridò la sentinella meno occupata di lui,  e che  vide

      al chiarore della lampada due specie d'ombre ingrandirsi dietro il

      capo.

      A questo grido, Vampa si alzò rapido, togliendo nello stesso tempo

      dalla cintura le pistole; in un momento i banditi furono in piedi,

      e venti canne di carabine erano dirette sopra il conte.

      "Ebbene" disse tranquillamente questi, con voce del tutto placida,

      e  senza  che  uno  solo  dei  muscoli del suo viso si contraesse,

      "ebbene,  mio caro Vampa,  mi sembra di vedere troppi  preparativi

      per ricevere un amico."

      "Abbasso  le  armi!" gridò il capo facendo un segno imperativo con

      una mano, mentre coll'altra si levava rispettosamente il cappello.

      Quindi volgendosi verso  il  singolare  personaggio  che  dominava

      tutta questa scena:

      "Perdono,    signor   conte"   disse,   "ma   ero   così   lontano

      dall'aspettarmi l'onore di una vostra visita,  che  non  vi  avevo

      riconosciuto."

      "Sembra  che  voi  abbiate  poca memoria in tutte le cose,  Vampa"

      disse il conte, "e che non solo vi scordiate della fisonomia delle

      persone, ma anche delle condizioni pattuite."

      "E quali condizioni ho potuto dimenticare,  signor conte?" domandò

      il bandito,  come un uomo che se ha commesso un fallo non desidera

      che di ripararlo.

      "Non è stato fra noi convenuto" disse il conte,  "che  vi  sarebbe

      stata  sacra  non solo la mia persona,  ma anche quella di tutti i

      miei amici?"

      "E in che ho mancato al trattato, Eccellenza?"

      "Questa sera avete rapito e trasportato  il  visconte  Alberto  di

      Morcerf:  ebbene"  continuò  il  conte  con  un  accento  che fece

      rabbrividire Franz,  "questo giovane è uno dei  miei  amici,  egli

      abita nello stesso albergo dove sto io, per otto giorni è stato al

      Corso  nella  mia  carrozza,  e  inoltre,  ve lo ripeto,  lo avete

      rapito,  lo avete trasportato qui" aggiunse il  conte  cavando  di

      tasca  la  lettera,  "gli  avete imposto un riscatto come se fosse

      stato un nemico."

      "E perché non mi avete avvisato di tutto questo?"  disse  il  capo

      volgendosi  ai  suoi  uomini,  che  indietreggiavano  tutti al suo

      sguardo. "Perché mi avete esposto a mancare alla mia parola con un

      uomo,  il signor conte,  che tiene tutte le nostre vite nelle  sue

      mani?  Per...!  Se  potessi  credere  che uno di voi sapeva che il

      giovane era amico di Sua  Eccellenza,  gli  brucerei  le  cervella

      colle mie mani!"

      "Ebbene"  disse  il conte volgendosi a Franz,  "non vi avevo detto

      che doveva esserci un qualche equivoco!"

      "Come, non siete solo?" domandò Vampa con inquietudine.

      "Sono con colui cui era diretta questa  lettera  ed  al  quale  ho

      voluto  provare  che  Luigi  Vampa  era un uomo di parola.  Venite

      avanti,  Eccellenza" disse a Franz,  "ecco  qui  il  signor  Luigi

      Vampa, che si dirà dolente dello sbaglio commesso."

      Franz  si  avanzò,  ed  il  capo  dei banditi gli andò incontro di

      qualche passo:

      "Siate il benvenuto in mezzo a noi, Eccellenza" gli disse.  "Avete

      sentito  ciò  che  ha  detto  il  signor  conte,  e ciò che gli ho

      risposto;  aggiungerò che non vorrei,  per i quattromila scudi che

      avevo fissato di riscatto, che ciò fosse accaduto."

      "Ma"  disse  Franz  guardando con inquietudine intorno,  "dov'è il

      prigioniero? Non lo vedo..."

      "Spero non gli sarà  accaduta  cosa  alcuna?"  domandò  il  conte,

      aggrottando il sopracciglio.

      "Il  prigioniero è là" disse Vampa,  mostrando colla mano il luogo

      oscuro davanti al quale passeggiava il bandito in  fazione.  "Vado

      io stesso ad annunciargli la libertà."

      Il capo si avanzò verso il luogo indicato come prigione d'Alberto,

      il conte e Franz lo seguirono.

      "Che fa il prigioniero?" domandò Vampa alla sentinella.

      "Sulla mia parola" rispose questi, "l'ignoro: da più di un'ora non

      l'ho sentito muoversi."

      "Venite, Eccellenza" disse Vampa.

      Il  conte  e  Franz salirono sette o otto scalini sempre preceduti

      dal capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta.

      Allora,  al chiarore di una lampada simile a quella che illuminava

      il  colombario,  si  poté  vedere Alberto,  avvolto in un mantello

      prestato da un bandito, steso in un angolo,  dormire nel sonno più

      profondo.

      "Andiamo"  disse  il conte con quel suo sorriso particolare,  "non

      c'è male per un uomo che doveva  essere  fucilato  domattina  alle

      sette."

      Vampa  guardò con una certa ammirazione Alberto che dormiva,  e si

      vide che non era insensibile a questa prova di coraggio.

      "Avete ragione,  signor conte" disse,  "quest'uomo dev'essere  uno

      dei vostri amici."

      E, accostandosi ad Alberto e toccandogli la spalla:

      "Eccellenza" disse, "si svegli, se le fa piacere."

      Alberto stese le braccia, si strofinò le palpebre, e si svegliò:

      "Ah" disse,  "siete voi,  capitano?  Per Bacco, avreste ben potuto

      lasciarmi dormire: io facevo un grazioso sogno, sognavo di ballare

      un galop da Torlonia con la contessa G."

      Guardò l'orologio che aveva conservato,  per poter controllare  il

      tempo trascorso:

      "Un'ora  e mezzo dopo mezzanotte;  e perché diavolo mi svegliate a

      quest'ora?"

      "Per dirvi che siete libero, Eccellenza."

      "Caro mio" soggiunse Alberto con una perfetta  prontezza  d'animo,

      "ricordatevi bene,  in avvenire, di questa massima di Napoleone il

      grande: "Non mi svegliate che  per  le  cattive  notizie".  Se  mi

      aveste  lasciato  dormire,  avrei terminato il mio galop,  e ve ne

      sarei stato riconoscente per tutta la vita...  Il mio  riscatto  è

      dunque stato pagato?"

      "No, Eccellenza."

      "In qual modo dunque son libero?"

      "Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi."

      "Fin qui?"

      "Fin qui."

      "Oh per Bacco, questo qualcuno è una persona molto amabile."

      Alberto guardò intorno a sé e s'avvide di Franz.

      "Come?" disse.  "Siete voi mio caro Franz, che spingete tant'oltre

      la vostra amicizia?"

      "Non sono io" rispose Franz, "ma il nostro conte di Montecristo."

      "Ah,  per Bacco!  il signor conte!" disse Alberto accomodandosi la

      cravatta ed i polsini.  "Siete un uomo veramente prezioso, e spero

      vorrete considerarmi riconoscente per tutta  la  vita,  prima  per

      l'affare della carrozza, e poi per questo."

      E in così dire stese la mano al conte,  che fremette al momento di

      dargli la sua; però gliela diede.

      Il bandito osservava tutta questa scena con volto stupefatto:  era

      evidentemente  avvezzo a vedere i suoi prigionieri tremare davanti

      a lui,  ed ora ne aveva innanzi a sé uno,  la cui burlevole indole

      non  aveva  sofferta  alcuna  alterazione;  quanto  a  Franz,  era

      contentissimo che Alberto,  anche in faccia ad un bandito,  avesse

      saputo sostenere l'onore nazionale.

      "Mio caro Alberto" gli disse, "se volete spicciarvi, avremo ancora

      il tempo di andare a finire la notte da Torlonia.  Riprenderete il

      vostro galop al punto in  cui  l'avete  interrotto,  per  cui  non

      serberete  alcun  rancore  col  signor  Luigi Vampa,  che in tutto

      questo affare, si è condotto da vero galantuomo."

      "Ah,  sì davvero" disse,  "avete ragione,  e noi potremo giungervi

      alle due...  Signor Luigi" continuò Alberto, "vi è altra formalità

      da compiersi prima di prendere commiato da Vostra Eccellenza?"

      "Nessuna,  signore" rispose il bandito,  "e voi siete libero  come

      l'aria."

      "In  questo  caso,  buona  ed  allegra  vita...  Venite,  signori,

      venite."

      Ed Alberto,  seguito da Franz e dal conte,  discese  la  scala,  e

      traversò la sala quadrata.

      Tutti i banditi erano in piedi col cappello in mano.

      "Peppino" disse il capo, "dammi la torcia."

      "Ebbene che volete fare?" domandò il conte.

      "Vi  accompagno,  questo  è  il  più  piccolo  onore  che io possa

      tributare a Vostra Eccellenza."

      E togliendo la torcia  accesa  dalle  mani  del  pastore,  camminò

      avanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto di

      servitù, ma come un re che preceda degli ambasciatori. Giunto alla

      porta, s'inchinò.

      "Ora,  signor conte" disse,  "vi rinnovo le mie scuse, e spero non

      conserverete alcun risentimento per l'accaduto."

      "No, mio caro Vampa" disse il conte.  "Emendate i vostri errori in

      un  modo  così  compito,  che  si  è  quasi  costretti  ad esservi

      obbligati per averli commessi."

      "Signori" riprese  il  capo  volgendosi  ai  due  giovani,  "forse

      l'invito non vi sembrerà molto attraente,  ma se mai vi venisse la

      volontà di farmi una seconda visita,  qui ed  in  qualunque  altro

      luogo potessi essere, sarete sempre i benvenuti."

      Franz ed Alberto lo salutarono.

      Il conte uscì per primo, Alberto lo seguì, Franz fu l'ultimo.

      "Vostra  Eccellenza,  ha  forse  qualche cosa da chiedermi?" disse

      Vampa.

      "Sì, lo confesso" rispose Franz, "sarei curioso di sapere qual era

      l'opera che  leggevate  con  tanta  attenzione  quando  noi  siamo

      arrivati."

      "I Commentari di Giulio Cesare, il mio libro prediletto."

      "Ebbene, non venite?" domandò Alberto.

      "Subito" rispose Franz, "eccomi."

      Ed uscì a sua volta dalla buca.

      Fatto qualche passo nella pianura:

      "Ah,   perdonatemi"  disse  Alberto,  tornando  indietro.  "Volete

      permettermi, capitano?"

      Ed accese il sigaro alla torcia di Vampa.

      "Ora signor conte"  disse  Alberto,  "ho  grandissima  premura  di

      finire la notte dal principe Torlonia."

      La carrozza fu ritrovata nel luogo dove era stata lasciata.

      Il  conte  disse  una  sola  parola  araba  ad  Alì,  ed i cavalli

      partirono a tutta carriera.

      Erano le due precise all'orologio d'Alberto,  quando i  due  amici

      entrarono nella sala da ballo.  Il loro ritorno fu un avvenimento,

      ma siccome rientrarono insieme, tutti i timori sul conto d'Alberto

      cessarono sul momento.

      "Signora" disse  il  visconte  de  Morcerf  avanzandosi  verso  la

      contessa, "ieri voi aveste la bontà di promettermi un galop, vengo

      un  po'  tardi  a  reclamare  questa graziosa promessa;  ma il mio

      amico,  che voi sapete quant'è sincero,  potrà dirvi  che  non  fu

      colpa mia."

      E  siccome  in  quel  momento  l'orchestra  dava  il segnale di un

      valzer,  Alberto passò il braccio attorno alla vita della contessa

      e disparve con lei fra il nembo dei ballerini.

      Intanto   Franz  ripensava  al  singolare  fremito  del  conte  di

      Montecristo, nel momento in cui era stato costretto a stringere la

      mano ad Alberto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 38.

                                 IL CONVEGNO.

 

 

      L'indomani nel levarsi,  la prima parola di Alberto fu di proporre

      a  Franz di fare una visita al conte.  Lo aveva già ringraziato la

      sera prima,  ma capiva benissimo che un favore come quello resogli

      dal  conte,   meritava  due  ringraziamenti.   Franz  che  provava

      un'attrattiva, mista a terrore, verso il conte di Montecristo, non

      volle  lasciarlo  andar  solo  da  quest'uomo,  e  lo  accompagnò.

      Entrambi furono introdotti: cinque minuti dopo comparve il conte.

      "Signor conte" disse Alberto andandogli incontro, "permettetemi di

      ripetervi  questa  mattina ciò che malamente vi ho detto la scorsa

      notte;  che non dimenticherò mai in qual frangente mi siate venuto

      in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o poco meno."

      "Mio  caro  vicino"  rispose  il  conte ridendo,  "voi esagerate i

      vostri obblighi verso di me;  non mi dovete  che  una  ventina  di

      migliaia  di  franchi  sul  vostro preventivo di viaggio,  ed ecco

      tutto...  Vedete bene che non bisogna parlarne.  Per vostra parte"

      aggiunse,  "ricevete  le  mie  congratulazioni;  avete  dimostrato

      un'ammirabile prontezza d'animo, e gran disinvoltura."

      "Che serve,  conte" disse Alberto,  "mi sono immaginato  di  avere

      avuto una sfavorevole contesa, ed esser corsa una sfida. Volli far

      comprendere  una  cosa a questi banditi,  che in tutti i paesi del

      mondo gli uomini si battono, ma che non vi sono che i francesi che

      si battono ridendo. Ma non essendo meno grande l'obbligo,  vengo a

      chiedervi  se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi utile

      in  qualche  cosa.  Mio  padre,  il  conte  de  Morcerf  d'origine

      spagnola, gode di un'alta posizione in Francia ed in Spagna, vengo

      a   mettere   me  e  tutte  le  persone  che  mi  amano  a  vostra

      disposizione."

      "Ebbene" disse il conte, "vi confesso,  signor de Morcerf,  che mi

      aspettavo da voi una simile offerta,  e che l'accetto con tutto il

      cuore.  Avevo già fissati i miei pensieri su di voi per  chiedervi

      un gran favore."

      "Quale?"

      "Non sono mai stato a Parigi, e non conosco Parigi."

      "Davvero"  gridò  Alberto,  "avete potuto vivere fino ad ora senza

      vedere Parigi? Pare incredibile..."

      "Eppure è così.  Ma  sento  che  una  più  lunga  ignoranza  della

      capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più; forse

      avrei  fatto  da  lungo  tempo  questo viaggio indispensabile,  se

      avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel

      mondo dove non ho alcuna relazione.

      "Oh, un uomo come voi!" gridò Alberto.

      "Siete molto buono.  Ma siccome non riconosco in me  stesso  altro

      merito  che  quello  di poter fare concorso,  come milionario,  ai

      vostri più ricchi banchieri,  e non vado a Parigi per speculare in

      borsa,  questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi

      risolve.  Vediamo v'impegnate,  mio  caro  de  Morcerf"  il  conte

      strisciò  questa parola con un singolare sorriso,  "quando sarò in

      Francia,  ad aprirmi  le  porte  di  quel  mondo,  dove  sarò  uno

      straniero al pari di un Huron, o di un cinese?"

      "Quanto a ciò,  mio caro conte, a meraviglia e con tutto il cuore"

      rispose Alberto,  "e tanto più volentieri (mio caro Franz,  non vi

      burlate tanto di me),  che sono richiamato a Parigi da una lettera

      che ricevo questa mattina stessa,  ed  in  cui  si  parla  di  una

      trattativa  con  una  casa molto rispettabile e che ha le migliori

      relazioni col bel mondo parigino."

      "Trattativa di matrimonio?" disse ridendo Franz.

      "Qual meraviglia?  Sì:  perciò  quando  ritornerete  a  Parigi  mi

      troverete uomo sposato,  e forse padre di famiglia. Ciò starà bene

      colla mia serietà naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo

      ripeto,  io ed i miei,  siamo tutti,  corpo  ed  anima,  a  vostra

      disposizione."

      "Ed  io  accetto"  disse il conte,  "perché vi assicuro che non mi

      mancava che questa occasione per effettuare un disegno che  rumino

      da lungo tempo."

      Franz  non  dubitò  un  momento che non fosse quello di cui si era

      lasciato sfuggire qualche parola nella grotta  di  Montecristo,  e

      guardò  il  conte  mentre  diceva  queste  parole,  per tentare di

      sorprendere sulla sua fisonomia qualche rivelazione  sui  progetti

      che  lo  conducevano  a  Parigi,  ma era molto difficile penetrare

      nell'animo di quest'uomo,  particolarmente quando lo vedeva con un

      sorriso.

      "Ma  mi  scusi,   conte"  soggiunse  Alberto,  contento  di  poter

      presentare a Parigi un uomo come il  conte  di  Montecristo,  "non

      sarà  un  qualche  castello  in  aria,  come  se ne fanno mille in

      viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia,  vengono poi distrutti al

      primo soffio di vento?"

      "No,  sul mio onore" disse il conte,  "voglio andare a Parigi,  ho

      bisogno d'andarvi."

      "E quando sarà?"

      "Quando vi sarete voi stesso?"

      "Io?" disse Alberto. "Oh, mio Dio,  fra quindici giorni,  o al più

      fra  tre  settimane;   il  tempo  necessario  per  il  ritorno,  e

      null'altro."

      "Ebbene,  vi accordo tre  mesi...  Vedete  che  vi  do  una  larga

      misura."

      "E fra tre mesi" gridò Alberto con gioia,  "verrete a battere alla

      mia porta?"

      "Volete un appuntamento anche per il giorno e per l'ora?" disse il

      conte.  "Vi prevengo  però  che  sono  di  una  esattezza  da  far

      disperare."

      "Il  giorno  e  l'ora  precisa!"  disse  Alberto.   "Ciò  andrà  a

      meraviglia."

      "Ebbene, sia così."

      Egli stese  la  mano  verso  un  calendario  attaccato  presso  lo

      specchio.

      "Oggi  siamo  al 21 febbraio" cavò l'orologio,  "e sono le dieci e

      mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21  maggio  prossimo  alle

      dieci e mezzo del mattino?"

      "A meraviglia!" disse Alberto. "La colazione sarà preparata."

      "Dove abitate?"

      "Rue Helder numero 27."

      "Siete   nella  vostra  casa  di  scapolo,   ed  io  non  vi  sarò

      d'incomodo?"

      "Abito in casa di mio padre,  ma in  un  padiglione  in  fondo  al

      cortile, interamente separato."

      "Va bene" il conte aprì il taccuino e scrisse: "Rue Helder, numero

      27, 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino".

      "Ed ora" disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, "state

      tranquillo, la sfera del vostro pendolo non sarà più esatta di me.

      Vi rivedrò prima della vostra partenza?" domandò ad Alberto.

      "Dipende..."

      "Quando partirete?"

      "Parto domani sera alle cinque."

      "In questo caso vi do il mio addio.  Ho alcuni affari a Napoli,  e

      non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi"

      soggiunse volgendosi a Franz, "partite voi pure, signor barone?"

      "Sì."

      "Per la Francia?"

      "No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia."

      "Noi dunque non ci rivedremo a Parigi?"

      "Temo di non avere quest'onore."

      "Animo dunque, signori, buon viaggio" disse il conte ai due amici,

      stendendo ad essi la mano.

      Era la prima volta che Franz toccava  la  mano  di  quest'uomo,  e

      rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto.

      "Per l'ultima volta" disse Alberto,  "resta stabilito sulla parola

      d'onore, è vero?  Rue Helder numero 27,  il 21 maggio alle dieci e

      mezzo del mattino?"

      "Il 21 maggio,  alle dieci e mezzo del mattino,  Rue Helder numero

      27" ripeté il conte.

      Dopo di che i due giovani amici lo salutarono.

      "Che avete?" disse  Alberto  a  Franz  nel  rientrare  nelle  loro

      stanze. "Mi sembrate molto afflitto."

      "Sì" disse Franz, "ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e

      vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi."

      "Questo  appuntamento...  con  inquietudine?  E  perché?  Ma siete

      pazzo, mio caro Franz!" gridò Alberto.

      "Che volete? Pazzo o no, la cosa va così."

      "Ascoltate" ripeté Alberto,  "sono ben contento che mi si presenti

      l'occasione  di  dirvi  che  vi  ho  sempre  trovato  di  una gran

      freddezza col conte mentr'egli per sua parte è  sempre  stato  ben

      diverso  con noi.  Avete qualche prevenzione in particolare contro

      di lui?"

      "Può darsi."

      "Ma l'avevate veduto in qualche altro  luogo  prima  d'incontrarlo

      qui?"

      "Precisamente."

      "E dove?"

      "Mi  promettete  di  non  dir  mai  una  parola  di quanto sto per

      raccontarvi?"

      "Ve lo prometto."

      "Sta bene: ascoltatemi dunque."

      Allora Franz raccontò ad Alberto la sua  escursione  all'isola  di

      Montecristo,  in  qual  modo  vi  aveva ritrovato un equipaggio di

      contrabbandieri e fra questi due  banditi  corsi.  Egli  calcò  su

      tutti  i particolari della ospitalità stregonesca che il conte gli

      aveva data nella sua grotta delle Mille e una notte, gli descrisse

      la cena, l'hashish, le statue,  la realtà,  il sogno e come al suo

      svegliarsi  altro  non restava più,  come prova e ricordo di tanti

      avvenimenti,  che il piccolo yacht che faceva  vela  all'orizzonte

      per Porto Vecchio.  Quindi passò a Roma,  alla notte del Colosseo,

      al dialogo che aveva udito fra lui e Vampa, conversazione relativa

      a Peppino,  e nella quale il conte aveva promesso di  ottenere  la

      grazia del bandito,  promessa che aveva mantenuta, come ne avranno

      potuto giudicare i nostri lettori.

      Finalmente   giunse   all'avventura   della   notte    precedente,

      all'impaccio  in  cui si era ritrovato,  vedendosi mancare sette o

      ottocento scudi per completare la somma;  infine all'idea che  gli

      era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto

      soddisfacente e pittoresco.

      Alberto ascoltava Franz con tutta l'attenzione.

      "Ebbene"  disse,  quando  l'amico  ebbe  finito,  "e  che  c'è  di

      riprovevole in  tutto  questo?  Il  conte  è  viaggiatore;  ha  un

      bastimento  proprio  perché è uomo ricco.  Andate a Portsmouht o a

      Southampton  e  ritroverete  questi  porti   ingombri   di   yacht

      appartenenti  a  ricchi inglesi che hanno la stessa fantasia.  Per

      sapere dove fermarsi nelle escursioni,  per non cibarsi di  quella

      terribile  cucina,  che  avvelena  me  da  quattro mesi,  e voi da

      quattro anni,  per non giacere su quei letti abominevoli nei quali

      non si può dormire, si è fatto ammobiliare un piccolo pian terreno

      a  Montecristo;  e temendo che il governo toscano non gli desse il

      permesso,  e tutti i suoi mobili andassero  perduti,  ha  comprato

      l'isola,  e ne ha assunto il nome.  Mio caro, frugate nella vostra

      memoria,  e ditemi quante persone di nostra conoscenza prendono il

      nome di proprietà che non hanno mai avute?"

      "Ma"  disse  Franz,  "e  quei  banditi  corsi che erano fra il suo

      equipaggio?..."

      "Che c'è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi

      corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li

      ha esiliati dalle loro città o dai  villaggi;  si  possono  dunque

      vedere  senza  compromettersi.  In  quanto a me dichiaro che se un

      giorno dovessi andare in Corsica,  prima di  farmi  presentare  al

      Governatore  o  al  Prefetto,  mi  farei  presentare ai banditi di

      Colomba,  sempre che vi si possa mettere la mano sopra,  e che  io

      considero gentiluomini."

      "Ma  Vampa  e  la  sua  banda" soggiunse Franz,  "sono banditi che

      rapiscono per rubare,  non lo negherete,  spero!  Che dite  dunque

      dell'influenza che il conte ha su tal razza di gente?"

      "Dirò  che dovendo la vita,  secondo tutte le apparenze,  a questa

      influenza,  non spetta a me il criticarla troppo da vicino.  Così,

      invece  di  fargliene,  come  voi,  una colpa capitale,  troverete

      giusto che lo scusi,  se non di avermi salvata  la  vita,  il  che

      sarebbe esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattro mila

      scudi, che fanno ventiquattro mila lire nella nostra moneta, somma

      per la quale non mi avrebbero tanto stimato in Francia."

      "Ma di che paese è il conte?  Che lingua parla?  Quali sono i suoi

      mezzi di sussistenza?  Da dove gli viene la sua  immensa  fortuna?

      Quale  è  stata  questa  prima  parte della sua vita misteriosa ed

      incognita,  che  ha  sparso  sulla  seconda  una  tinta  oscura  e

      misantropica? Ecco ciò che al vostro posto vorrei sapere."

      "Mio  caro Franz,  quando leggendo la mia lettera vi siete accorto

      che avevamo bisogno  dell'influenza  del  conte,  siete  andato  a

      dirgli:  "Alberto conte di Morcerf corre un pericolo;  aiutatemi a

      toglierlo d'impiccio!". Non è vero?"

      "Sì."

      "Allora vi ha egli domandato: "E chi è questo  signor  Alberto  de

      Morcerf?  Donde  gli  viene  il  suo nome?  Donde gli viene la sua

      fortuna?  Quali sono i suoi mezzi di sussistenza?  Qual è  il  suo

      paese? Dove è nato?". Vi ha forse fatte queste domande? dite?"

      "No, lo confesso."

      "Egli  è  venuto,  ecco  tutto,  mi ha tolto dalle mani del signor

      Vampa, dove ad onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste,  vi

      facevo barbina figura,  lo confesso: ebbene,  mio caro,  quando in

      cambio di simile favore mi domanda di far per lui ciò  che  si  fa

      tutti  i  giorni  per il primo principe russo o italiano che passa

      per Parigi,  vale a dire presentarlo in società,  volete  che  gli

      neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo?"

      Bisogna  convenire  che,  contro il solito,  questa volta tutte le

      buone ragioni erano dalla parte di Alberto.

      "E va bene" rispose Franz con un sospiro,  "fate come volete,  mio

      caro  visconte,  poiché tutto quello che mi dite è persuasivo,  lo

      confesso,  ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è  un

      uomo strano."

      "Il  conte  di  Montecristo è un uomo molto generoso...  Non vi ha

      detto con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere

      al premio di Monthyon,  e se ad ottenerlo non gli manca che il mio

      voto,  glielo  darò.  Dopo  di  ciò,  non  parliamo più di questo:

      mettiamoci a tavola,  e dopo andiamo a fare un'ultima visita a San

      Pietro."

      Fu fatto come aveva detto Alberto, e il giorno dopo alle cinque di

      sera i due giovani si lasciarono, Alberto de Morcerf per ritornare

      a Parigi,  e Franz d'Epinay per passare una quindicina di giorni a

      Venezia.

      Ma Alberto,  prima di salire in carrozza,  consegnò  al  cameriere

      dell'albergo,  tanto  aveva  paura  che  il  convitato mancasse al

      convegno, un biglietto da visita per il conte di Montecristo,  sul

      quale  al  di  sotto  delle  parole "Visconte Alberto de Morcerf",

      aveva scritto colla matita:

      "21 maggio,  alle dieci e mezzo antimeridiane,  rue Helder  numero

      27."

 

 

       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Traduzioni telematiche a cura di

      Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo

      (Casa di reclusione - Opera)

 

 

 

                           IL CONTE DI MONTECRISTO.

                             di Alessandro Dumas.

 

                               VOLUME SECONDO.

 

 

 

 

 

 

                                    INDICE

 

 

      Capitolo 39. La colazione:                             pagina   4.

      Capitolo 40. La presentazione:                         pagina  59.

      Capitolo 41. Bertuccio:                                pagina  83.

      Capitolo 42. La casa di Auteil:                        pagina  92.

      Capitolo 43. La vendetta:                              pagina 105.

      Capitolo 44. Pioggia di sangue:                        pagina 144.

      Capitolo 45. Il credito illimitato:                    pagina 164.

      Capitolo 46. La pariglia grigio-pomellata:             pagina 186.

      Capitolo 47. Ideologia:                                pagina 206.

      Capitolo 48. Haydée:                                   pagina 224.

      Capitolo 49. La famiglia Morrel:                       pagina 232.

      Capitolo 50. Piramo e Tisbe:                           pagina 250.

      Capitolo 51. Tossicologia:                             pagina 267.

      Capitolo 52. Roberto il Diavolo:                       pagina 293.

      Capitolo 53. Rialzo e ribasso dei fondi:               pagina 320.

      Capitolo 54. Il maggiore Cavalcanti:                   pagina 339.

      Capitolo 55. Andrea Cavalcanti:                        pagina 356.

      Capitolo 56. Il recinto di trifoglio:                  pagina 376.

      Capitolo 57. Il signor Noirtier Villefort:             pagina 395.

      Capitolo 58. Il testamento:                            pagina 410.

      Capitolo 59. Il telegrafo:                             pagina 425.

      Capitolo 60. Mezzo di liberare un giardiniere

                   dai ghiri che gli mangiano le pesche:     pagina 442.

      Capitolo 61. I fantasmi:                               pagina 460.

      Capitolo 62. Il pranzo:                                pagina 476.

      Capitolo 63. Il mendico:                               pagina 495.

      Capitolo 64. Scena coniugale:                          pagina 511.

      Capitolo 65. Disegni di matrimonio:                    pagina 529.

      Capitolo 66. L'ufficio del Procuratore del Re:         pagina 547.

      Capitolo 67. Un ballo in estate:                       pagina 568.

      Capitolo 68. Le informazioni:                          pagina 582.

      Capitolo 69. La festa da ballo:                        pagina 600.

      Capitolo 70. Il pane e il sale:                        pagina 616.

      Capitolo 71. La signora di Saint-Méran:                pagina 624.

      Capitolo 72. La promessa:                              pagina 645.

      Capitolo 73. La tomba della famiglia Villefort:        pagina 694.

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 39.

                                LA COLAZIONE.

 

 

      Nella casa di rue Helder,  in cui Alberto de Morcerf aveva dato in

      Roma  convegno al conte di Montecristo,  tutto veniva preparato il

      mattino del 21  maggio,  per  fare  onore  alla  parola  data  dal

      giovane.

      Alberto  abitava un padiglione posto all'angolo di un gran cortile

      rimpetto ad un altro stabile.

      Due sole finestre di questo padiglione  guardavano  sulla  strada,

      delle  altre,  tre  davano  sul cortile,  e due sul giardino.  Fra

      questo cortile ed il giardino  s'ergeva,  sebbene  fabbricata  con

      cattivo  gusto di architettura imperiale,  l'abitazione elegante e

      vasta del conte e della contessa de Morcerf.

      Su tutta la larghezza del fabbricato  girava  un  muro,  che  dava

      sulla strada, ornato ad intervalli da sovrapposti vasi di fiori, e

      diviso nel mezzo da un cancello,  a lance dorate,  che serviva per

      le entrate di parata; una piccola porta,  addossata all'abitazione

      del   portinaio  dava  passaggio  a  padroni  e  servitori  quando

      entravano o uscivano a piedi.

      Nella scelta del padiglione destinato ad abitazione d'Alberto,  si

      scorgeva  la  delicata  previdenza  di  una  madre che non volendo

      dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovane dell'età di

      Alberto aveva bisogno di libertà d'azione.

      Però  dobbiamo  convenirne,   si  scorgeva   pure   l'intelligente

      narcisismo  del  giovane,  perduto in quella vita libera ed oziosa

      propria dei figli di famiglia, al quale veniva,  come all'uccello,

      dorata la gabbia.

      Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva

      dare  qualche  occhiata  all'esterno,  cosa  tanto  necessaria  ai

      giovani che vogliono vedere passare innanzi agli occhi il  proprio

      orizzonte,  fosse pur quello della strada.  Alberto poteva, per le

      sue scappatelle,  uscire da una piccola porta che  era  dirimpetto

      all'altra   di  cui  abbiamo  parlato,   presso  l'abitazione  del

      portinaio, e merita una particolare menzione.

      Era una piccola porta,  che si sarebbe detta dimenticata da  tutti

      dal  momento  che  fu  fabbricata  la  casa,  e si sarebbe creduta

      condannata a rimanere sempre chiusa,  tanto  sembrava  meschina  e

      polverosa.  Ma  i  catenacci e i gangheri erano talmente ben unti,

      che ne tradivano l'uso continuo e misterioso.

      Questa piccola porta segreta faceva concorrenza  alle  altre  due,

      aprendosi  come  la  famosa  porta della caverna delle Mille e una

      notte,  Sesamo incantato di Alì Babà,  per mezzo di qualche parola

      cabalistica,  o di qualche segno convenuto,  pronunciato dalla più

      dolce voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo.

      Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava

      questa piccola porta e che formava anticamera,  s'apriva a  destra

      la sala da pranzo d'Alberto che guardava il cortile, ed a sinistra

      la sua piccola sala da ricevimento che guardava il giardino.

      Cespugli  e  piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle

      finestre e nascondevano al cortile ed  al  giardino  l'interno  di

      queste  stanze,  le  sole  al  piano terreno,  che potevano essere

      esposte agli sguardi degli importuni.

      Al primo piano queste due camere si ripetevano,  più una terza che

      corrispondeva  alla  sottoposta  anticamera:  erano  la  camera da

      letto, quella da ricevimento, ed un salottino.

      La sala del piano terreno era una  specie  di  "boudoir"  algerino

      destinato ai fumatori.

      Il salotto del primo piano metteva nella camera da letto e per una

      porta invisibile aveva comunicazione colle scale.

      Si ponga mente alle cautele.

      Al  di  sopra  di  questo  primo  piano  spaziava un vasto studio,

      ingrandito abbattendo i muri di  divisione,  in  un  disordine  da

      artista o da damerino.

       erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci di

      Alberto: i corni  da  caccia,  i  bassi,  i  flauti,  un'orchestra

      completa,  poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia

      della musica;  i cavalletti,  tavolozze,  i pastelli,  poiché alla

      fantasia  della  musica  era  succeduta  la fatuità della pittura;

      finalmente i fioretti,  i guanti da pugilatore,  gli squadroni e i

      bastoni  d'ogni  genere,  poiché,  seguendo il costume dei giovani

      alla moda, Alberto coltivava, con maggior perseveranza di quel che

      non aveva fatto con la musica  e  la  pittura,  le  tre  arti  che

      formano  il compimento dell'educazione da "lyons",  vale a dire la

      scherma, i pugni ed il bastone, ed in questa camera destinata agli

      esercizi corporali,  vi riceveva successivamente Grisier,  Cooks e

      Carlo Lacour.

      Il resto della mobilia di questa sala privilegiata si componeva di

      vecchi   forzieri  dei  tempi  di  Francesco  Primo,   ripieni  di

      porcellane della Cina, di vasi del Giappone,  di terraglie di Luca

      della  Robbia  e  di  piatti  di  Bernardo di Palissy;  di antichi

      seggioloni,  in cui forse si era assiso  Enrico  Quarto  o  Sully,

      Luigi Tredicesimo o Richelieu,  poiché due di essi,  ornati di uno

      scudo intagliato,  ove su campo azzurro brillavano i tre gigli  di

      Francia  sormontati  dalla corona reale,  provenivano visibilmente

      dal guardaroba del Louvre,  o per  lo  meno  da  qualche  castello

      reale.  Su  essi  erano  gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi

      colori,  tinte al sole della Persia o ricamate  dalle  dita  delle

      donne di Calcutta o di Chandernagor.

      Che  stessero  a  far là quelle stoffe non si sarebbe potuto dire;

      aspettavano, ricreando gli occhi,  un destino sconosciuto anche al

      loro  stesso  proprietario,  e  mentre aspettavano,  rischiaravano

      l'appartamento coi loro riflessi dorati.

      Nel posto più  appariscente  c'era  un  pianoforte  fabbricato  da

      Roller  e  Blanchet  di  legno  di  rosa,  della  forma dei nostri

      organetti di Barberia, racchiudente un'orchestra nella sua stretta

      e sonora capacità, e caricato coi capolavori di Weber,  di Mozart,

      d'Haydn, di Grétry e di Porpora.

      Quindi,  lungo tutti i muri,  sopra le porte,  nel soffitto, erano

      disposti  spade,  pugnali,  stocchi,  mazze  dorate,   e  complete

      armature  damascate,  incrostate;  arborari,  massi  di  minerali,

      uccelli imbottiti di crini,  che tenevano le ali aperte in un volo

      immobile,  colle penne color di fuoco,  col becco che non chiudono

      mai.

      Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Alberto.

      Però,  il giorno dell'appuntamento,  il giovane in abito di  mezza

      gala  aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del piano

      terreno.  Ivi,  su una tavola,  circondata da un  divano  largo  e

      morbido,  stavano  tutti  i  tabacchi  conosciuti,  dal  giallo di

      Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il portorico e  il

      "latakiè",  erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono

      il vanto degli olandesi.

      Accanto ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per

      ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia,  avana,

      ecc.

      Finalmente  in  un  armadio  aperto  una  collezione  di  pipe  di

      Germania, di Turchia, coi bocchini d'ambra, ornate di corallo e di

      fregi incrostati d'oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a

      guisa di serpenti,  aspettavano il capriccio  o  la  simpatia  dei

      fumatori.

      Alberto aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il

      dopo  caffè  quando i convitati amano osservare il fumo che sfugge

      loro di bocca,  dirigendosi al soffitto in  lunghe  e  capricciose

      spirali.

      Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere,  che,  unitamente ad

      un groom di quindici  anni,  che  parlava  soltanto  l'inglese,  e

      rispondeva  al  nome  di John,  erano i soli domestici di Alberto.

      Anche se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni  ordinari  e

      negli   straordinari,   e  il  cacciatore  del  conte  era  a  sua

      disposizione.

      Questo cameriere,  che si chiamava Germano e che godeva  tutta  la

      confidenza  del  giovane  padrone,  teneva  in  mano  un  pacco di

      giornali che depose sul tavolo,  ed alcune lettere che consegnò ad

      Alberto,  il  quale  vi  gettò sopra uno sguardo indifferente,  ne

      scelse due con minuti caratteri e con  sopraccarta  profumata,  le

      dissigillò, e le lesse con qualche attenzione.

      "Come sono arrivate queste lettere?" domandò.

      "Una  è venuta per posta,  l'altra l'ha portata il cameriere della

      signora Danglars."

      "Fate dire alla signora Danglars,  che accetto  il  posto  che  mi

      offre nel suo palco... Aspettate, in giornata passerete da Rosa le

      direte  che  andrò,   come  m'invita,  a  cenare  da  lei  uscendo

      dall'Opera,  e le porterete sei bottiglie  di  vino  assortito  di

      Cipro,  Xeres,  di  Malaga,  ed un barile di ostriche d'Ostenda...

      Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me."

      "A che ora comanda in ordine la tavola?"

      "Che ore sono?"

      "Manca un quarto alle dieci."

      "Ebbene,  ordinate per le dieci e  mezzo  precise...  Debray  sarà

      forse obbligato ad andare al suo ministero... e d 'altra parte..."

      Alberto consultò il suo taccuino,  "questa è l'ora che ho indicata

      al conte:  il  "21  maggio  alle  dieci  e  mezzo  antimeridiane".

      Quantunque  non  faccia  gran fondamento sulla promessa,  desidero

      essere esatto.  A proposito,  sapete se la  signora  contessa  sia

      alzata?"

      "Se il signor visconte lo desidera, andrò ad informarmene."

      "Sì...  le chiederete una delle sue cassettine da liquori,  poiché

      la mia è incompleta: le direte che avrò  l'onore  d'andar  da  lei

      verso  le  tre,  e  che  le  domando  permesso  di  presentarle un

      signore."

      Uscito il cameriere,  Alberto si gettò  sul  divano,  stracciò  la

      fascetta   a  due  o  tre  giornali,   guardò  gli  annunzi  degli

      spettacoli, fece una smorfia vedendo che si rappresentava un'opera

      e non un ballo;  cercò invano fra gli  annunzi  di  profumeria  un

      oppiaceo  per  dolore dei denti,  e gettò l'uno dopo l'altro i tre

      giornali più  in  voga  a  Parigi,  mormorando  in  mezzo  ad  uno

      sbadiglio prolungato:

      "In  verità  questi  giornali diventano di giorno in giorno sempre

      più noiosi!"

      In quel momento una carrozza si fermò  davanti  la  porta,  ed  un

      momento  dopo  il  cameriere rientrò annunziando il signor Luciano

      Debray.

      Un giovane biondo, alto, pallido,  coll'occhio grigio e fermo,  le

      labbra  sottili  e  fredde,  l'abito  blu a bottoni cesellati,  la

      cravatta bianca,  una lente di cristallo sospesa  ad  un  filo  di

      seta,  fissata  all'occhio  destro,  entrò senza sorridere,  senza

      parlare, con un portamento semiufficiale.

      "Buon giorno, Luciano,  buon giorno!" disse Alberto.  "Ah!  voi mi

      spaventate,  mio  caro,  colla  vostra  esattezza!  Ma  che  dico,

      esattezza!  Voi che non aspettavo che per  ultimo,  giungete  alle

      dieci  meno  cinque  minuti,  mentre l'appuntamento non è che alle

      dieci e mezzo.  Questo è un miracolo!  Il ministero sarebbe  forse

      caduto?"

      "No,   carissimo"   disse  il  giovane,   gettandosi  sul  divano,

      "tranquillizzatevi,  trattiamo  sempre,  ma  non  cediamo  mai,  e

      comincio  a  credere  che  passeremo  bonariamente all'immobilità,

      senza contare che gli affari  della  penisola  vanno  in  modo  da

      consolidarsi pienamente."

      "Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna."

      "No,  carissimo non confondete le cose,  lo riconduciamo all'altra

      frontiera della Francia,  e gli offriamo una ospitalità  da  re  a

      Bourges."

      "A Bourges?"

      "Sì,  egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo

      Settimo. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò?  Tutta Parigi lo

      sa  da  ieri,  e avanti ieri la cosa era già trapelata alla borsa,

      perché Danglars (non so con qual mezzo quest'uomo  ha  le  notizie

      nello  stesso  tempo  che  noi),  perché Danglars ha rischiato sul

      rialzo dei fondi, e vi ha guadagnato un milione."

      "E voi una nuova decorazione,  a  quanto  pare:  poiché  vedo  una

      striscia blu in più alla vostra spranghetta!"

      "Bah,  mi  hanno  inviato  la  decorazione di Carlo Terzo" rispose

      negligentemente Debray.

      "Andiamo,  non fate tanto l'indifferente,  e confessate che  avete

      avuto piacere a riceverla."

      "In fede mia,  sì, come compimento di toilette una placca sta bene

      sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante."

      "E" disse ridendo  Morcerf,  "si  ha  l'aspetto  del  principe  di

      Galles, o simili..."

      "Ecco adunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon'ora."

      "Per la placca di Carlo Terzo, e volevate darmi questa notizia?"

      "No,  ma  perché  ho  passato  tutta  la  notte  a spedir lettere:

      venticinque dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina

      a giorno, volevo dormire,  ma mi ha assalito il dolor di testa,  e

      mi  sono  rialzato  per montare un'ora a cavallo.  A Boulogne sono

      stato preso dalla noia e dalla  fame,  due  nemici  che  raramente