"Era quello che guidava, mascherato da cocchiere..." rispose
Peppino.
"E poi?" chiese il conte.
"Ebbene, in seguito il francese si levò la maschera; Teresa,
sempre col permesso del capo, fece altrettanto; il francese
domandò un convegno, Teresa l'accordò; soltanto fu Beppe che si
trovò sugli scalini della chiesa di San Giacomo."
"Come!" interruppe nuovamente Franz, "quella persona che gli
strappò il moccoletto?..."
"Era un giovane di quindici anni" rispose Peppino, "ma il vostro
amico non deve vergognarsi d'essere stato ingannato da lui, ne ha
ingannati molti altri."
"E Beppe lo ha condotto fuori le mura?" domandò il conte.
"Precisamente. Una carrozza li aspettava alla fine della strada
del Macello; Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo: non
se lo fece dire due volte. Offerse con tutta galanteria la destra
a Beppe, e gli si sedette vicino; questi annunziò allora che lo
avrebbe condotto in una villa a tre miglia da Roma; il francese lo
assicurò di essere pronto a seguirlo in capo al mondo. Il
cocchiere si avviò subito per la strada di Ripetta, giunse alla
porta San Paolo, e a duecento passi nella campagna, siccome il
francese diventava un po' troppo intraprendente, in fede mia,
Beppe gli puntò un paio di pistole alla gola, il cocchiere fermò
subito i cavalli, e volgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello
stesso tempo quattro dei nostri, che erano nascosti dietro le rive
dell'Almo, si sono lanciati agli sportelli. Il francese aveva
buona volontà di difendersi, e per poco non ha strangolato Beppe,
a quanto ho inteso dire; ma non c'era nulla da fare contro cinque
uomini armati, ed è stato costretto ad arrendersi. Allora fu fatto
scendere di carrozza, e seguendo l'argine della piccola riviera,
fu condotto da Teresa e Luigi che lo aspettavano nelle catacombe
di San Sebastiano."
"Bene!" disse il conte volgendosi a Franz. "Mi pare che questa
storia ne valga bene un'altra... Che ne dite voi che ve ne
intendete?"
"Dico che la troverei ridicola, se fosse avvenuta a tutt'altri che
al mio amico."
"Il fatto è" disse il conte, "che se non mi aveste ritrovato in
casa, questa era un'avventura che sarebbe costata un po' cara al
vostro amico; ma tranquillizzatevi, ne sarà riscattato solo con un
poco di paura."
"E noi andiamo a trovarlo?" domandò Franz.
"Per Bacco, tanto più perché si trova in una località molto
pittoresca. Conoscete le catacombe di San Sebastiano?"
"No, non vi sono mai disceso: avevo però stabilito che un qualche
giorno vi sarei andato."
"Ebbene, ecco trovata l'occasione, e sarà difficile ritrovarne una
migliore. Avete pronta la vostra carrozza?"
"No."
"Non importa: io ho l'uso di farne stare una sempre pronta notte e
giorno."
"In ordine?..."
"Sì, sono molto capriccioso: vi confesso che qualche volta,
alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende
la volontà di portarmi in un punto qualunque del mondo, e parto."
Il conte dette un tocco al campanello, il cameriere comparve.
"Fate uscire la carrozza dalla rimessa" disse, "e levate le
pistole che stanno nelle tasche: è inutile svegliare il cocchiere,
Alì guiderà."
Dopo un momento s'intese il rumore della carrozza, che si fermò
davanti alla porta.
Il conte guardò l'orologio.
"Mezz'ora dopo mezzanotte" disse. "Avremmo potuto partire tra
cinque ore, e giungere ancora in tempo; ma questo ritardo forse
avrebbe fatto passare una cattiva notte al vostro compagno. E
dunque meglio andare di corsa a toglierlo dalle mani dei barbari.
Siete sempre risoluto ad accompagnarmi?"
"Più che mai."
"Ebbene, andiamo dunque."
Franz ed il conte uscirono seguiti da Peppino.
Alla porta trovarono la carrozza.
Alì era a cassetta: Franz riconobbe lo schiavo muto della grotta
di Montecristo.
Salirono in carrozza aperta; Peppino si pose vicino ad Alì e
partirono al galoppo. Alì aveva già ricevuto gli ordini, poiché
prese la strada del Corso, e traversò Campo Vaccino, percorse
quella di San Gregorio, e giunse alla porta di San Sebastiano: il
portinaio volle fare qualche difficoltà, ma il conte di
Montecristo presentò un permesso del governatore di Roma di potere
entrare ed uscire dalla città in qualunque ora del giorno e della
notte; fu dunque aperta la porta, il portinaio ricevette un luigi
per il suo incomodo e passarono.
La strada che percorreva la carrozza era l'antica via Appia, tutta
costeggiata da antichi sepolcri. A quando a quando, al chiarore
della luna che sorgeva, sembrava a Franz di vedere una specie di
sentinella staccarsi da un rudere; ma ad un segnale di Peppino
spariva immediatamente fra le ombre.
Poco prima del circo di Caracalla la carrozza si fermò, Peppino
venne ad aprire lo sportello, e Franz ed il conte discesero.
"Fra dieci minuti" disse il conte al compagno, "saremo arrivati."
Indi prese Peppino a parte, gli dette un ordine a bassa voce, e
questi partì dopo essersi munito di una torcia presa nella
cassetta della carrozza.
Scorsero ancora cinque minuti, nei quali Franz vide il pastore
inoltrarsi fra le dune del terreno ineguale della campagna romana,
e perdersi fra l'alta erba rossastra che sembra l'irta criniera di
qualche gigantesco leone.
"Ora" disse il conte, "seguiamolo."
Entrambi s'inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi
li condusse per un piano inclinato in una piccola vallata.
Ben presto videro due uomini parlarsi fra le ombre.
"Dobbiamo continuare ad inoltrarci?" domandò Franz al conte, "o
aspettare?"
"Avanti... Peppino deve avere avvisata la sentinella del nostro
arrivo."
Infatti uno di quei due uomini era Peppino, l'altro un bandito
posto a vedetta.
Franz e il conte si avvicinarono, il bandito li salutò.
"Eccellenza" disse Peppino, volgendosi al conte, "se vuole
seguirmi, l'ingresso alle catacombe è qui a due passi."
"Sta bene" disse il conte, "cammina avanti."
Infatti dietro ad un folto cespuglio, ed in mezzo a diverse rocce,
si presentava un'apertura per la quale un uomo poteva appena
passare. Peppino fu il primo a scivolare entro questa fenditura;
ma appena ebbe fatto qualche passo il passaggio si allargò.
Allora si fermò, accese la torcia, e si volse a vedere se era
seguito.
Il conte si era introdotto per primo per questa specie di
spiraglio, e Franz dopo di lui. Il terreno si abbassava con una
inclinazione dolce, e si allargava man mano che s'inoltravano; ciò
nonostante Franz ed il conte erano obbligati a camminare ricurvi,
ed avrebbero fatto fatica a passare tutti e due di fianco.
In tal modo fecero circa cinquanta passi, quindi si fermarono al
grido "chi vive?" e nello stesso tempo videro brillare la canna di
un fucile al chiarore della torcia.
"Amici!" rispose Peppino.
E si avanzò solo, disse alcune parole a bassa voce a questa
seconda sentinella, che come la prima li salutò facendo segno ai
notturni visitatori che potevano passare.
Dietro la sentinella c'era una scala di circa venti gradini.
Franz ed il conte li discesero e si ritrovarono in una specie di
crocevia mortuario.
Da questo punto divergevano cinque vie come i raggi di una stella,
e le pareti delle mura, scavate a nicchie sovrapposte a forma di
sepolcri, indicavano che finalmente erano penetrati nelle
catacombe. In una di queste cavità, di cui era impossibile
calcolare l'estensione, si vedevano alcuni riflessi di luce.
Il conte mise la mano sulla spalla di Franz, e disse:
"Volete vedere un accampamento di banditi immersi nel sonno?"
"Sì" rispose Franz.
"Ebbene, venite con me... Peppino, smorza la torcia."
Peppino obbedì, e Franz ed il conte si trovarono nella più
profonda oscurità; soltanto a circa cinquanta passi davanti a
loro, si vedevano lungo i muri alcuni raggi rossastri di luce,
divenuti ancora più visibili dopo che Peppino ebbe spenta la
torcia.
Avanzarono silenziosamente; il conte guidava Franz come se avesse
avuta la singolare facoltà di vederci fra le tenebre. Lo stesso
Franz acquistava maggior pratica del luogo man mano che
s'inoltrava verso quel chiaro di luce che serviva di guida.
Tre arcate, delle quali una di mezzo serviva di porta, dettero
loro passaggio. Da una parte mettevano nel corridoio dov'erano
Franz ed il conte, e dall'altra in una sala quadrata, tutta
circondata da nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo
s'ergevano quattro pietre che un tempo erano adibite ad altare
come indicava la croce sovrapposta.
Una sola lampada, posta sopra un fusto di colonna, illuminava con
una luce pallida e vacillante la strana scena che si presentava
agli occhi dei due notturni visitatori nascosti nell'ombra.
Un uomo era seduto, col gomito appoggiato a questa colonna, e
leggeva, voltando le spalle alle arcate.
Era il capo della banda, Luigi Vampa.
Intorno a lui, stavano stesi e avvolti nei loro mantelli, o
addossati ad una specie di banco di pietra che girava tutt'intorno
alle pareti di questo colombario, una ventina circa di briganti;
ciascuno teneva la carabina a portata di mano.
Nel fondo, silenziosa, e appena visibile si scorgeva una
sentinella che come un'ombra passeggiava su e giù, davanti ad una
specie di apertura, che non da altro si distingueva, se non perché
erano più fitte le tenebre in quella direzione.
Appena il conte s'accorse che Franz aveva abituati abbastanza gli
occhi a questo quadro pittoresco portò l'indice alle labbra per
raccomandare il silenzio, e salendo i tre scalini che dal
corridoio mettevano nel colombario, entrò nella sala dell'arcata
di mezzo, e si avanzò verso Vampa tanto profondamente immerso
nella lettura, che non ne intese i passi.
"Chi è là?" gridò la sentinella meno occupata di lui, e che vide
al chiarore della lampada due specie d'ombre ingrandirsi dietro il
capo.
A questo grido, Vampa si alzò rapido, togliendo nello stesso tempo
dalla cintura le pistole; in un momento i banditi furono in piedi,
e venti canne di carabine erano dirette sopra il conte.
"Ebbene" disse tranquillamente questi, con voce del tutto placida,
e senza che uno solo dei muscoli del suo viso si contraesse,
"ebbene, mio caro Vampa, mi sembra di vedere troppi preparativi
per ricevere un amico."
"Abbasso le armi!" gridò il capo facendo un segno imperativo con
una mano, mentre coll'altra si levava rispettosamente il cappello.
Quindi volgendosi verso il singolare personaggio che dominava
tutta questa scena:
"Perdono, signor conte" disse, "ma ero così lontano
dall'aspettarmi l'onore di una vostra visita, che non vi avevo
riconosciuto."
"Sembra che voi abbiate poca memoria in tutte le cose, Vampa"
disse il conte, "e che non solo vi scordiate della fisonomia delle
persone, ma anche delle condizioni pattuite."
"E quali condizioni ho potuto dimenticare, signor conte?" domandò
il bandito, come un uomo che se ha commesso un fallo non desidera
che di ripararlo.
"Non è stato fra noi convenuto" disse il conte, "che vi sarebbe
stata sacra non solo la mia persona, ma anche quella di tutti i
miei amici?"
"E in che ho mancato al trattato, Eccellenza?"
"Questa sera avete rapito e trasportato il visconte Alberto di
Morcerf: ebbene" continuò il conte con un accento che fece
rabbrividire Franz, "questo giovane è uno dei miei amici, egli
abita nello stesso albergo dove sto io, per otto giorni è stato al
Corso nella mia carrozza, e inoltre, ve lo ripeto, lo avete
rapito, lo avete trasportato qui" aggiunse il conte cavando di
tasca la lettera, "gli avete imposto un riscatto come se fosse
stato un nemico."
"E perché non mi avete avvisato di tutto questo?" disse il capo
volgendosi ai suoi uomini, che indietreggiavano tutti al suo
sguardo. "Perché mi avete esposto a mancare alla mia parola con un
uomo, il signor conte, che tiene tutte le nostre vite nelle sue
mani? Per...! Se potessi credere che uno di voi sapeva che il
giovane era amico di Sua Eccellenza, gli brucerei le cervella
colle mie mani!"
"Ebbene" disse il conte volgendosi a Franz, "non vi avevo detto
che doveva esserci un qualche equivoco!"
"Come, non siete solo?" domandò Vampa con inquietudine.
"Sono con colui cui era diretta questa lettera ed al quale ho
voluto provare che Luigi Vampa era un uomo di parola. Venite
avanti, Eccellenza" disse a Franz, "ecco qui il signor Luigi
Vampa, che si dirà dolente dello sbaglio commesso."
Franz si avanzò, ed il capo dei banditi gli andò incontro di
qualche passo:
"Siate il benvenuto in mezzo a noi, Eccellenza" gli disse. "Avete
sentito ciò che ha detto il signor conte, e ciò che gli ho
risposto; aggiungerò che non vorrei, per i quattromila scudi che
avevo fissato di riscatto, che ciò fosse accaduto."
"Ma" disse Franz guardando con inquietudine intorno, "dov'è il
prigioniero? Non lo vedo..."
"Spero non gli sarà accaduta cosa alcuna?" domandò il conte,
aggrottando il sopracciglio.
"Il prigioniero è là" disse Vampa, mostrando colla mano il luogo
oscuro davanti al quale passeggiava il bandito in fazione. "Vado
io stesso ad annunciargli la libertà."
Il capo si avanzò verso il luogo indicato come prigione d'Alberto,
il conte e Franz lo seguirono.
"Che fa il prigioniero?" domandò Vampa alla sentinella.
"Sulla mia parola" rispose questi, "l'ignoro: da più di un'ora non
l'ho sentito muoversi."
"Venite, Eccellenza" disse Vampa.
Il conte e Franz salirono sette o otto scalini sempre preceduti
dal capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta.
Allora, al chiarore di una lampada simile a quella che illuminava
il colombario, si poté vedere Alberto, avvolto in un mantello
prestato da un bandito, steso in un angolo, dormire nel sonno più
profondo.
"Andiamo" disse il conte con quel suo sorriso particolare, "non
c'è male per un uomo che doveva essere fucilato domattina alle
sette."
Vampa guardò con una certa ammirazione Alberto che dormiva, e si
vide che non era insensibile a questa prova di coraggio.
"Avete ragione, signor conte" disse, "quest'uomo dev'essere uno
dei vostri amici."
E, accostandosi ad Alberto e toccandogli la spalla:
"Eccellenza" disse, "si svegli, se le fa piacere."
Alberto stese le braccia, si strofinò le palpebre, e si svegliò:
"Ah" disse, "siete voi, capitano? Per Bacco, avreste ben potuto
lasciarmi dormire: io facevo un grazioso sogno, sognavo di ballare
un galop da Torlonia con la contessa G."
Guardò l'orologio che aveva conservato, per poter controllare il
tempo trascorso:
"Un'ora e mezzo dopo mezzanotte; e perché diavolo mi svegliate a
quest'ora?"
"Per dirvi che siete libero, Eccellenza."
"Caro mio" soggiunse Alberto con una perfetta prontezza d'animo,
"ricordatevi bene, in avvenire, di questa massima di Napoleone il
grande: "Non mi svegliate che per le cattive notizie". Se mi
aveste lasciato dormire, avrei terminato il mio galop, e ve ne
sarei stato riconoscente per tutta la vita... Il mio riscatto è
dunque stato pagato?"
"No, Eccellenza."
"In qual modo dunque son libero?"
"Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi."
"Fin qui?"
"Fin qui."
"Oh per Bacco, questo qualcuno è una persona molto amabile."
Alberto guardò intorno a sé e s'avvide di Franz.
"Come?" disse. "Siete voi mio caro Franz, che spingete tant'oltre
la vostra amicizia?"
"Non sono io" rispose Franz, "ma il nostro conte di Montecristo."
"Ah, per Bacco! il signor conte!" disse Alberto accomodandosi la
cravatta ed i polsini. "Siete un uomo veramente prezioso, e spero
vorrete considerarmi riconoscente per tutta la vita, prima per
l'affare della carrozza, e poi per questo."
E in così dire stese la mano al conte, che fremette al momento di
dargli la sua; però gliela diede.
Il bandito osservava tutta questa scena con volto stupefatto: era
evidentemente avvezzo a vedere i suoi prigionieri tremare davanti
a lui, ed ora ne aveva innanzi a sé uno, la cui burlevole indole
non aveva sofferta alcuna alterazione; quanto a Franz, era
contentissimo che Alberto, anche in faccia ad un bandito, avesse
saputo sostenere l'onore nazionale.
"Mio caro Alberto" gli disse, "se volete spicciarvi, avremo ancora
il tempo di andare a finire la notte da Torlonia. Riprenderete il
vostro galop al punto in cui l'avete interrotto, per cui non
serberete alcun rancore col signor Luigi Vampa, che in tutto
questo affare, si è condotto da vero galantuomo."
"Ah, sì davvero" disse, "avete ragione, e noi potremo giungervi
alle due... Signor Luigi" continuò Alberto, "vi è altra formalità
da compiersi prima di prendere commiato da Vostra Eccellenza?"
"Nessuna, signore" rispose il bandito, "e voi siete libero come
l'aria."
"In questo caso, buona ed allegra vita... Venite, signori,
venite."
Ed Alberto, seguito da Franz e dal conte, discese la scala, e
traversò la sala quadrata.
Tutti i banditi erano in piedi col cappello in mano.
"Peppino" disse il capo, "dammi la torcia."
"Ebbene che volete fare?" domandò il conte.
"Vi accompagno, questo è il più piccolo onore che io possa
tributare a Vostra Eccellenza."
E togliendo la torcia accesa dalle mani del pastore, camminò
avanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto di
servitù, ma come un re che preceda degli ambasciatori. Giunto alla
porta, s'inchinò.
"Ora, signor conte" disse, "vi rinnovo le mie scuse, e spero non
conserverete alcun risentimento per l'accaduto."
"No, mio caro Vampa" disse il conte. "Emendate i vostri errori in
un modo così compito, che si è quasi costretti ad esservi
obbligati per averli commessi."
"Signori" riprese il capo volgendosi ai due giovani, "forse
l'invito non vi sembrerà molto attraente, ma se mai vi venisse la
volontà di farmi una seconda visita, qui ed in qualunque altro
luogo potessi essere, sarete sempre i benvenuti."
Franz ed Alberto lo salutarono.
Il conte uscì per primo, Alberto lo seguì, Franz fu l'ultimo.
"Vostra Eccellenza, ha forse qualche cosa da chiedermi?" disse
Vampa.
"Sì, lo confesso" rispose Franz, "sarei curioso di sapere qual era
l'opera che leggevate con tanta attenzione quando noi siamo
arrivati."
"I Commentari di Giulio Cesare, il mio libro prediletto."
"Ebbene, non venite?" domandò Alberto.
"Subito" rispose Franz, "eccomi."
Ed uscì a sua volta dalla buca.
Fatto qualche passo nella pianura:
"Ah, perdonatemi" disse Alberto, tornando indietro. "Volete
permettermi, capitano?"
Ed accese il sigaro alla torcia di Vampa.
"Ora signor conte" disse Alberto, "ho grandissima premura di
finire la notte dal principe Torlonia."
La carrozza fu ritrovata nel luogo dove era stata lasciata.
Il conte disse una sola parola araba ad Alì, ed i cavalli
partirono a tutta carriera.
Erano le due precise all'orologio d'Alberto, quando i due amici
entrarono nella sala da ballo. Il loro ritorno fu un avvenimento,
ma siccome rientrarono insieme, tutti i timori sul conto d'Alberto
cessarono sul momento.
"Signora" disse il visconte de Morcerf avanzandosi verso la
contessa, "ieri voi aveste la bontà di promettermi un galop, vengo
un po' tardi a reclamare questa graziosa promessa; ma il mio
amico, che voi sapete quant'è sincero, potrà dirvi che non fu
colpa mia."
E siccome in quel momento l'orchestra dava il segnale di un
valzer, Alberto passò il braccio attorno alla vita della contessa
e disparve con lei fra il nembo dei ballerini.
Intanto Franz ripensava al singolare fremito del conte di
Montecristo, nel momento in cui era stato costretto a stringere la
mano ad Alberto.
Capitolo 38.
IL CONVEGNO.
L'indomani nel levarsi, la prima parola di Alberto fu di proporre
a Franz di fare una visita al conte. Lo aveva già ringraziato la
sera prima, ma capiva benissimo che un favore come quello resogli
dal conte, meritava due ringraziamenti. Franz che provava
un'attrattiva, mista a terrore, verso il conte di Montecristo, non
volle lasciarlo andar solo da quest'uomo, e lo accompagnò.
Entrambi furono introdotti: cinque minuti dopo comparve il conte.
"Signor conte" disse Alberto andandogli incontro, "permettetemi di
ripetervi questa mattina ciò che malamente vi ho detto la scorsa
notte; che non dimenticherò mai in qual frangente mi siate venuto
in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita, o poco meno."
"Mio caro vicino" rispose il conte ridendo, "voi esagerate i
vostri obblighi verso di me; non mi dovete che una ventina di
migliaia di franchi sul vostro preventivo di viaggio, ed ecco
tutto... Vedete bene che non bisogna parlarne. Per vostra parte"
aggiunse, "ricevete le mie congratulazioni; avete dimostrato
un'ammirabile prontezza d'animo, e gran disinvoltura."
"Che serve, conte" disse Alberto, "mi sono immaginato di avere
avuto una sfavorevole contesa, ed esser corsa una sfida. Volli far
comprendere una cosa a questi banditi, che in tutti i paesi del
mondo gli uomini si battono, ma che non vi sono che i francesi che
si battono ridendo. Ma non essendo meno grande l'obbligo, vengo a
chiedervi se per mezzo delle mie conoscenze potessi esservi utile
in qualche cosa. Mio padre, il conte de Morcerf d'origine
spagnola, gode di un'alta posizione in Francia ed in Spagna, vengo
a mettere me e tutte le persone che mi amano a vostra
disposizione."
"Ebbene" disse il conte, "vi confesso, signor de Morcerf, che mi
aspettavo da voi una simile offerta, e che l'accetto con tutto il
cuore. Avevo già fissati i miei pensieri su di voi per chiedervi
un gran favore."
"Quale?"
"Non sono mai stato a Parigi, e non conosco Parigi."
"Davvero" gridò Alberto, "avete potuto vivere fino ad ora senza
vedere Parigi? Pare incredibile..."
"Eppure è così. Ma sento che una più lunga ignoranza della
capitale del mondo intellettuale è impossibile. Vi è di più; forse
avrei fatto da lungo tempo questo viaggio indispensabile, se
avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel
mondo dove non ho alcuna relazione.
"Oh, un uomo come voi!" gridò Alberto.
"Siete molto buono. Ma siccome non riconosco in me stesso altro
merito che quello di poter fare concorso, come milionario, ai
vostri più ricchi banchieri, e non vado a Parigi per speculare in
borsa, questa modestia mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi
risolve. Vediamo v'impegnate, mio caro de Morcerf" il conte
strisciò questa parola con un singolare sorriso, "quando sarò in
Francia, ad aprirmi le porte di quel mondo, dove sarò uno
straniero al pari di un Huron, o di un cinese?"
"Quanto a ciò, mio caro conte, a meraviglia e con tutto il cuore"
rispose Alberto, "e tanto più volentieri (mio caro Franz, non vi
burlate tanto di me), che sono richiamato a Parigi da una lettera
che ricevo questa mattina stessa, ed in cui si parla di una
trattativa con una casa molto rispettabile e che ha le migliori
relazioni col bel mondo parigino."
"Trattativa di matrimonio?" disse ridendo Franz.
"Qual meraviglia? Sì: perciò quando ritornerete a Parigi mi
troverete uomo sposato, e forse padre di famiglia. Ciò starà bene
colla mia serietà naturale, non è vero? In ogni modo, conte, ve lo
ripeto, io ed i miei, siamo tutti, corpo ed anima, a vostra
disposizione."
"Ed io accetto" disse il conte, "perché vi assicuro che non mi
mancava che questa occasione per effettuare un disegno che rumino
da lungo tempo."
Franz non dubitò un momento che non fosse quello di cui si era
lasciato sfuggire qualche parola nella grotta di Montecristo, e
guardò il conte mentre diceva queste parole, per tentare di
sorprendere sulla sua fisonomia qualche rivelazione sui progetti
che lo conducevano a Parigi, ma era molto difficile penetrare
nell'animo di quest'uomo, particolarmente quando lo vedeva con un
sorriso.
"Ma mi scusi, conte" soggiunse Alberto, contento di poter
presentare a Parigi un uomo come il conte di Montecristo, "non
sarà un qualche castello in aria, come se ne fanno mille in
viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia, vengono poi distrutti al
primo soffio di vento?"
"No, sul mio onore" disse il conte, "voglio andare a Parigi, ho
bisogno d'andarvi."
"E quando sarà?"
"Quando vi sarete voi stesso?"
"Io?" disse Alberto. "Oh, mio Dio, fra quindici giorni, o al più
fra tre settimane; il tempo necessario per il ritorno, e
null'altro."
"Ebbene, vi accordo tre mesi... Vedete che vi do una larga
misura."
"E fra tre mesi" gridò Alberto con gioia, "verrete a battere alla
mia porta?"
"Volete un appuntamento anche per il giorno e per l'ora?" disse il
conte. "Vi prevengo però che sono di una esattezza da far
disperare."
"Il giorno e l'ora precisa!" disse Alberto. "Ciò andrà a
meraviglia."
"Ebbene, sia così."
Egli stese la mano verso un calendario attaccato presso lo
specchio.
"Oggi siamo al 21 febbraio" cavò l'orologio, "e sono le dieci e
mezzo del mattino: volete aspettarmi il 21 maggio prossimo alle
dieci e mezzo del mattino?"
"A meraviglia!" disse Alberto. "La colazione sarà preparata."
"Dove abitate?"
"Rue Helder numero 27."
"Siete nella vostra casa di scapolo, ed io non vi sarò
d'incomodo?"
"Abito in casa di mio padre, ma in un padiglione in fondo al
cortile, interamente separato."
"Va bene" il conte aprì il taccuino e scrisse: "Rue Helder, numero
27, 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino".
"Ed ora" disse il conte, rimettendosi il taccuino in tasca, "state
tranquillo, la sfera del vostro pendolo non sarà più esatta di me.
Vi rivedrò prima della vostra partenza?" domandò ad Alberto.
"Dipende..."
"Quando partirete?"
"Parto domani sera alle cinque."
"In questo caso vi do il mio addio. Ho alcuni affari a Napoli, e
non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi"
soggiunse volgendosi a Franz, "partite voi pure, signor barone?"
"Sì."
"Per la Francia?"
"No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia."
"Noi dunque non ci rivedremo a Parigi?"
"Temo di non avere quest'onore."
"Animo dunque, signori, buon viaggio" disse il conte ai due amici,
stendendo ad essi la mano.
Era la prima volta che Franz toccava la mano di quest'uomo, e
rabbrividì, perché era di ghiaccio come quella di un morto.
"Per l'ultima volta" disse Alberto, "resta stabilito sulla parola
d'onore, è vero? Rue Helder numero 27, il 21 maggio alle dieci e
mezzo del mattino?"
"Il 21 maggio, alle dieci e mezzo del mattino, Rue Helder numero
27" ripeté il conte.
Dopo di che i due giovani amici lo salutarono.
"Che avete?" disse Alberto a Franz nel rientrare nelle loro
stanze. "Mi sembrate molto afflitto."
"Sì" disse Franz, "ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e
vedo con inquietudine questo appuntamento a Parigi."
"Questo appuntamento... con inquietudine? E perché? Ma siete
pazzo, mio caro Franz!" gridò Alberto.
"Che volete? Pazzo o no, la cosa va così."
"Ascoltate" ripeté Alberto, "sono ben contento che mi si presenti
l'occasione di dirvi che vi ho sempre trovato di una gran
freddezza col conte mentr'egli per sua parte è sempre stato ben
diverso con noi. Avete qualche prevenzione in particolare contro
di lui?"
"Può darsi."
"Ma l'avevate veduto in qualche altro luogo prima d'incontrarlo
qui?"
"Precisamente."
"E dove?"
"Mi promettete di non dir mai una parola di quanto sto per
raccontarvi?"
"Ve lo prometto."
"Sta bene: ascoltatemi dunque."
Allora Franz raccontò ad Alberto la sua escursione all'isola di
Montecristo, in qual modo vi aveva ritrovato un equipaggio di
contrabbandieri e fra questi due banditi corsi. Egli calcò su
tutti i particolari della ospitalità stregonesca che il conte gli
aveva data nella sua grotta delle Mille e una notte, gli descrisse
la cena, l'hashish, le statue, la realtà, il sogno e come al suo
svegliarsi altro non restava più, come prova e ricordo di tanti
avvenimenti, che il piccolo yacht che faceva vela all'orizzonte
per Porto Vecchio. Quindi passò a Roma, alla notte del Colosseo,
al dialogo che aveva udito fra lui e Vampa, conversazione relativa
a Peppino, e nella quale il conte aveva promesso di ottenere la
grazia del bandito, promessa che aveva mantenuta, come ne avranno
potuto giudicare i nostri lettori.
Finalmente giunse all'avventura della notte precedente,
all'impaccio in cui si era ritrovato, vedendosi mancare sette o
ottocento scudi per completare la somma; infine all'idea che gli
era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un risultato tanto
soddisfacente e pittoresco.
Alberto ascoltava Franz con tutta l'attenzione.
"Ebbene" disse, quando l'amico ebbe finito, "e che c'è di
riprovevole in tutto questo? Il conte è viaggiatore; ha un
bastimento proprio perché è uomo ricco. Andate a Portsmouht o a
Southampton e ritroverete questi porti ingombri di yacht
appartenenti a ricchi inglesi che hanno la stessa fantasia. Per
sapere dove fermarsi nelle escursioni, per non cibarsi di quella
terribile cucina, che avvelena me da quattro mesi, e voi da
quattro anni, per non giacere su quei letti abominevoli nei quali
non si può dormire, si è fatto ammobiliare un piccolo pian terreno
a Montecristo; e temendo che il governo toscano non gli desse il
permesso, e tutti i suoi mobili andassero perduti, ha comprato
l'isola, e ne ha assunto il nome. Mio caro, frugate nella vostra
memoria, e ditemi quante persone di nostra conoscenza prendono il
nome di proprietà che non hanno mai avute?"
"Ma" disse Franz, "e quei banditi corsi che erano fra il suo
equipaggio?..."
"Che c'è di strano? Capite meglio di qualunque altro che i banditi
corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche vendetta li
ha esiliati dalle loro città o dai villaggi; si possono dunque
vedere senza compromettersi. In quanto a me dichiaro che se un
giorno dovessi andare in Corsica, prima di farmi presentare al
Governatore o al Prefetto, mi farei presentare ai banditi di
Colomba, sempre che vi si possa mettere la mano sopra, e che io
considero gentiluomini."
"Ma Vampa e la sua banda" soggiunse Franz, "sono banditi che
rapiscono per rubare, non lo negherete, spero! Che dite dunque
dell'influenza che il conte ha su tal razza di gente?"
"Dirò che dovendo la vita, secondo tutte le apparenze, a questa
influenza, non spetta a me il criticarla troppo da vicino. Così,
invece di fargliene, come voi, una colpa capitale, troverete
giusto che lo scusi, se non di avermi salvata la vita, il che
sarebbe esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare quattro mila
scudi, che fanno ventiquattro mila lire nella nostra moneta, somma
per la quale non mi avrebbero tanto stimato in Francia."
"Ma di che paese è il conte? Che lingua parla? Quali sono i suoi
mezzi di sussistenza? Da dove gli viene la sua immensa fortuna?
Quale è stata questa prima parte della sua vita misteriosa ed
incognita, che ha sparso sulla seconda una tinta oscura e
misantropica? Ecco ciò che al vostro posto vorrei sapere."
"Mio caro Franz, quando leggendo la mia lettera vi siete accorto
che avevamo bisogno dell'influenza del conte, siete andato a
dirgli: "Alberto conte di Morcerf corre un pericolo; aiutatemi a
toglierlo d'impiccio!". Non è vero?"
"Sì."
"Allora vi ha egli domandato: "E chi è questo signor Alberto de
Morcerf? Donde gli viene il suo nome? Donde gli viene la sua
fortuna? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? Qual è il suo
paese? Dove è nato?". Vi ha forse fatte queste domande? dite?"
"No, lo confesso."
"Egli è venuto, ecco tutto, mi ha tolto dalle mani del signor
Vampa, dove ad onta di tutte le mie arie, come voi mi diceste, vi
facevo barbina figura, lo confesso: ebbene, mio caro, quando in
cambio di simile favore mi domanda di far per lui ciò che si fa
tutti i giorni per il primo principe russo o italiano che passa
per Parigi, vale a dire presentarlo in società, volete che gli
neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo?"
Bisogna convenire che, contro il solito, questa volta tutte le
buone ragioni erano dalla parte di Alberto.
"E va bene" rispose Franz con un sospiro, "fate come volete, mio
caro visconte, poiché tutto quello che mi dite è persuasivo, lo
confesso, ma è altrettanto vero che il conte di Montecristo è un
uomo strano."
"Il conte di Montecristo è un uomo molto generoso... Non vi ha
detto con quale scopo viene a Parigi? Ebbene, viene per concorrere
al premio di Monthyon, e se ad ottenerlo non gli manca che il mio
voto, glielo darò. Dopo di ciò, non parliamo più di questo:
mettiamoci a tavola, e dopo andiamo a fare un'ultima visita a San
Pietro."
Fu fatto come aveva detto Alberto, e il giorno dopo alle cinque di
sera i due giovani si lasciarono, Alberto de Morcerf per ritornare
a Parigi, e Franz d'Epinay per passare una quindicina di giorni a
Venezia.
Ma Alberto, prima di salire in carrozza, consegnò al cameriere
dell'albergo, tanto aveva paura che il convitato mancasse al
convegno, un biglietto da visita per il conte di Montecristo, sul
quale al di sotto delle parole "Visconte Alberto de Morcerf",
aveva scritto colla matita:
"21 maggio, alle dieci e mezzo antimeridiane, rue Helder numero
27."
Traduzioni telematiche a cura di
Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo
(Casa di reclusione - Opera)
IL CONTE DI MONTECRISTO.
di Alessandro Dumas.
VOLUME SECONDO.
INDICE
Capitolo 39. La colazione: pagina 4.
Capitolo 40. La presentazione: pagina 59.
Capitolo 41. Bertuccio: pagina 83.
Capitolo 42. La casa di Auteil: pagina 92.
Capitolo 43. La vendetta: pagina 105.
Capitolo 44. Pioggia di sangue: pagina 144.
Capitolo 45. Il credito illimitato: pagina 164.
Capitolo 46. La pariglia grigio-pomellata: pagina 186.
Capitolo 47. Ideologia: pagina 206.
Capitolo 48. Haydée: pagina 224.
Capitolo 49. La famiglia Morrel: pagina 232.
Capitolo 50. Piramo e Tisbe: pagina 250.
Capitolo 51. Tossicologia: pagina 267.
Capitolo 52. Roberto il Diavolo: pagina 293.
Capitolo 53. Rialzo e ribasso dei fondi: pagina 320.
Capitolo 54. Il maggiore Cavalcanti: pagina 339.
Capitolo 55. Andrea Cavalcanti: pagina 356.
Capitolo 56. Il recinto di trifoglio: pagina 376.
Capitolo 57. Il signor Noirtier Villefort: pagina 395.
Capitolo 58. Il testamento: pagina 410.
Capitolo 59. Il telegrafo: pagina 425.
Capitolo 60. Mezzo di liberare un giardiniere
dai ghiri che gli mangiano le pesche: pagina 442.
Capitolo 61. I fantasmi: pagina 460.
Capitolo 62. Il pranzo: pagina 476.
Capitolo 63. Il mendico: pagina 495.
Capitolo 64. Scena coniugale: pagina 511.
Capitolo 65. Disegni di matrimonio: pagina 529.
Capitolo 66. L'ufficio del Procuratore del Re: pagina 547.
Capitolo 67. Un ballo in estate: pagina 568.
Capitolo 68. Le informazioni: pagina 582.
Capitolo 69. La festa da ballo: pagina 600.
Capitolo 70. Il pane e il sale: pagina 616.
Capitolo 71. La signora di Saint-Méran: pagina 624.
Capitolo 72. La promessa: pagina 645.
Capitolo 73. La tomba della famiglia Villefort: pagina 694.
Capitolo 39.
LA COLAZIONE.
Nella casa di rue Helder, in cui Alberto de Morcerf aveva dato in
Roma convegno al conte di Montecristo, tutto veniva preparato il
mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data dal
giovane.
Alberto abitava un padiglione posto all'angolo di un gran cortile
rimpetto ad un altro stabile.
Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada,
delle altre, tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra
questo cortile ed il giardino s'ergeva, sebbene fabbricata con
cattivo gusto di architettura imperiale, l'abitazione elegante e
vasta del conte e della contessa de Morcerf.
Su tutta la larghezza del fabbricato girava un muro, che dava
sulla strada, ornato ad intervalli da sovrapposti vasi di fiori, e
diviso nel mezzo da un cancello, a lance dorate, che serviva per
le entrate di parata; una piccola porta, addossata all'abitazione
del portinaio dava passaggio a padroni e servitori quando
entravano o uscivano a piedi.
Nella scelta del padiglione destinato ad abitazione d'Alberto, si
scorgeva la delicata previdenza di una madre che non volendo
dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovane dell'età di
Alberto aveva bisogno di libertà d'azione.
Però dobbiamo convenirne, si scorgeva pure l'intelligente
narcisismo del giovane, perduto in quella vita libera ed oziosa
propria dei figli di famiglia, al quale veniva, come all'uccello,
dorata la gabbia.
Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva
dare qualche occhiata all'esterno, cosa tanto necessaria ai
giovani che vogliono vedere passare innanzi agli occhi il proprio
orizzonte, fosse pur quello della strada. Alberto poteva, per le
sue scappatelle, uscire da una piccola porta che era dirimpetto
all'altra di cui abbiamo parlato, presso l'abitazione del
portinaio, e merita una particolare menzione.
Era una piccola porta, che si sarebbe detta dimenticata da tutti
dal momento che fu fabbricata la casa, e si sarebbe creduta
condannata a rimanere sempre chiusa, tanto sembrava meschina e
polverosa. Ma i catenacci e i gangheri erano talmente ben unti,
che ne tradivano l'uso continuo e misterioso.
Questa piccola porta segreta faceva concorrenza alle altre due,
aprendosi come la famosa porta della caverna delle Mille e una
notte, Sesamo incantato di Alì Babà, per mezzo di qualche parola
cabalistica, o di qualche segno convenuto, pronunciato dalla più
dolce voce, ed eseguito dalla più bella mano del mondo.
Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava
questa piccola porta e che formava anticamera, s'apriva a destra
la sala da pranzo d'Alberto che guardava il cortile, ed a sinistra
la sua piccola sala da ricevimento che guardava il giardino.
Cespugli e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle
finestre e nascondevano al cortile ed al giardino l'interno di
queste stanze, le sole al piano terreno, che potevano essere
esposte agli sguardi degli importuni.
Al primo piano queste due camere si ripetevano, più una terza che
corrispondeva alla sottoposta anticamera: erano la camera da
letto, quella da ricevimento, ed un salottino.
La sala del piano terreno era una specie di "boudoir" algerino
destinato ai fumatori.
Il salotto del primo piano metteva nella camera da letto e per una
porta invisibile aveva comunicazione colle scale.
Si ponga mente alle cautele.
Al di sopra di questo primo piano spaziava un vasto studio,
ingrandito abbattendo i muri di divisione, in un disordine da
artista o da damerino.
Là erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci di
Alberto: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un'orchestra
completa, poiché per un momento ebbe non il gusto, ma la fantasia
della musica; i cavalletti, tavolozze, i pastelli, poiché alla
fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura;
finalmente i fioretti, i guanti da pugilatore, gli squadroni e i
bastoni d'ogni genere, poiché, seguendo il costume dei giovani
alla moda, Alberto coltivava, con maggior perseveranza di quel che
non aveva fatto con la musica e la pittura, le tre arti che
formano il compimento dell'educazione da "lyons", vale a dire la
scherma, i pugni ed il bastone, ed in questa camera destinata agli
esercizi corporali, vi riceveva successivamente Grisier, Cooks e
Carlo Lacour.
Il resto della mobilia di questa sala privilegiata si componeva di
vecchi forzieri dei tempi di Francesco Primo, ripieni di
porcellane della Cina, di vasi del Giappone, di terraglie di Luca
della Robbia e di piatti di Bernardo di Palissy; di antichi
seggioloni, in cui forse si era assiso Enrico Quarto o Sully,
Luigi Tredicesimo o Richelieu, poiché due di essi, ornati di uno
scudo intagliato, ove su campo azzurro brillavano i tre gigli di
Francia sormontati dalla corona reale, provenivano visibilmente
dal guardaroba del Louvre, o per lo meno da qualche castello
reale. Su essi erano gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi
colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle dita delle
donne di Calcutta o di Chandernagor.
Che stessero a far là quelle stoffe non si sarebbe potuto dire;
aspettavano, ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al
loro stesso proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano
l'appartamento coi loro riflessi dorati.
Nel posto più appariscente c'era un pianoforte fabbricato da
Roller e Blanchet di legno di rosa, della forma dei nostri
organetti di Barberia, racchiudente un'orchestra nella sua stretta
e sonora capacità, e caricato coi capolavori di Weber, di Mozart,
d'Haydn, di Grétry e di Porpora.
Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano
disposti spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete
armature damascate, incrostate; arborari, massi di minerali,
uccelli imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte in un volo
immobile, colle penne color di fuoco, col becco che non chiudono
mai.
Non occorre dire che questa era la stanza prediletta di Alberto.
Però, il giorno dell'appuntamento, il giovane in abito di mezza
gala aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del piano
terreno. Ivi, su una tavola, circondata da un divano largo e
morbido, stavano tutti i tabacchi conosciuti, dal giallo di
Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il portorico e il
"latakiè", erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono
il vanto degli olandesi.
Accanto ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per
ordine di grandezza e di qualità, i sigari puros, regalia, avana,
ecc.
Finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di
Germania, di Turchia, coi bocchini d'ambra, ornate di corallo e di
fregi incrostati d'oro, con lunghe canne di marocchino ripiegate a
guisa di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei
fumatori.
Alberto aveva controllato di persona tutti quei preparativi per il
dopo caffè quando i convitati amano osservare il fumo che sfugge
loro di bocca, dirigendosi al soffitto in lunghe e capricciose
spirali.
Alle dieci meno un quarto entrò un cameriere, che, unitamente ad
un groom di quindici anni, che parlava soltanto l'inglese, e
rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Alberto.
Anche se poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari e
negli straordinari, e il cacciatore del conte era a sua
disposizione.
Questo cameriere, che si chiamava Germano e che godeva tutta la
confidenza del giovane padrone, teneva in mano un pacco di
giornali che depose sul tavolo, ed alcune lettere che consegnò ad
Alberto, il quale vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne
scelse due con minuti caratteri e con sopraccarta profumata, le
dissigillò, e le lesse con qualche attenzione.
"Come sono arrivate queste lettere?" domandò.
"Una è venuta per posta, l'altra l'ha portata il cameriere della
signora Danglars."
"Fate dire alla signora Danglars, che accetto il posto che mi
offre nel suo palco... Aspettate, in giornata passerete da Rosa le
direte che andrò, come m'invita, a cenare da lei uscendo
dall'Opera, e le porterete sei bottiglie di vino assortito di
Cipro, Xeres, di Malaga, ed un barile di ostriche d'Ostenda...
Prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me."
"A che ora comanda in ordine la tavola?"
"Che ore sono?"
"Manca un quarto alle dieci."
"Ebbene, ordinate per le dieci e mezzo precise... Debray sarà
forse obbligato ad andare al suo ministero... e d 'altra parte..."
Alberto consultò il suo taccuino, "questa è l'ora che ho indicata
al conte: il "21 maggio alle dieci e mezzo antimeridiane".
Quantunque non faccia gran fondamento sulla promessa, desidero
essere esatto. A proposito, sapete se la signora contessa sia
alzata?"
"Se il signor visconte lo desidera, andrò ad informarmene."
"Sì... le chiederete una delle sue cassettine da liquori, poiché
la mia è incompleta: le direte che avrò l'onore d'andar da lei
verso le tre, e che le domando permesso di presentarle un
signore."
Uscito il cameriere, Alberto si gettò sul divano, stracciò la
fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunzi degli
spettacoli, fece una smorfia vedendo che si rappresentava un'opera
e non un ballo; cercò invano fra gli annunzi di profumeria un
oppiaceo per dolore dei denti, e gettò l'uno dopo l'altro i tre
giornali più in voga a Parigi, mormorando in mezzo ad uno
sbadiglio prolungato:
"In verità questi giornali diventano di giorno in giorno sempre
più noiosi!"
In quel momento una carrozza si fermò davanti la porta, ed un
momento dopo il cameriere rientrò annunziando il signor Luciano
Debray.
Un giovane biondo, alto, pallido, coll'occhio grigio e fermo, le
labbra sottili e fredde, l'abito blu a bottoni cesellati, la
cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa ad un filo di
seta, fissata all'occhio destro, entrò senza sorridere, senza
parlare, con un portamento semiufficiale.
"Buon giorno, Luciano, buon giorno!" disse Alberto. "Ah! voi mi
spaventate, mio caro, colla vostra esattezza! Ma che dico,
esattezza! Voi che non aspettavo che per ultimo, giungete alle
dieci meno cinque minuti, mentre l'appuntamento non è che alle
dieci e mezzo. Questo è un miracolo! Il ministero sarebbe forse
caduto?"
"No, carissimo" disse il giovane, gettandosi sul divano,
"tranquillizzatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e
comincio a credere che passeremo bonariamente all'immobilità,
senza contare che gli affari della penisola vanno in modo da
consolidarsi pienamente."
"Ah, è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna."
"No, carissimo non confondete le cose, lo riconduciamo all'altra
frontiera della Francia, e gli offriamo una ospitalità da re a
Bourges."
"A Bourges?"
"Sì, egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo
Settimo. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò? Tutta Parigi lo
sa da ieri, e avanti ieri la cosa era già trapelata alla borsa,
perché Danglars (non so con qual mezzo quest'uomo ha le notizie
nello stesso tempo che noi), perché Danglars ha rischiato sul
rialzo dei fondi, e vi ha guadagnato un milione."
"E voi una nuova decorazione, a quanto pare: poiché vedo una
striscia blu in più alla vostra spranghetta!"
"Bah, mi hanno inviato la decorazione di Carlo Terzo" rispose
negligentemente Debray.
"Andiamo, non fate tanto l'indifferente, e confessate che avete
avuto piacere a riceverla."
"In fede mia, sì, come compimento di toilette una placca sta bene
sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante."
"E" disse ridendo Morcerf, "si ha l'aspetto del principe di
Galles, o simili..."
"Ecco adunque, carissimo, il perché mi vedete così di buon'ora."
"Per la placca di Carlo Terzo, e volevate darmi questa notizia?"
"No, ma perché ho passato tutta la notte a spedir lettere:
venticinque dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina
a giorno, volevo dormire, ma mi ha assalito il dolor di testa, e
mi sono rialzato per montare un'ora a cavallo. A Boulogne sono
stato preso dalla noia e dalla fame, due nemici che raramente